venerdì 28 ottobre 2011

28 ottobre 2011

Don Giovanni                                              autore: Concetto Nicosia

Il mito di don Giovanni è forse il più diffuso dell’età moderna. Nato in Spagna all’inizio del seicento, dopo quattro secoli di vita conta quasi cinquemila incarnazioni in tutte le forme possibili e immaginabili di diffusione di un mito. Da sempre si cerca di svelare il mistero del fascino di don Giovanni. Perché, ci si chiede, quest’uomo dissoluto, insolente, bugiardo, blasfemo, è divenuto mitico come Amleto, come don Chisciotte, come Faust? Perché, è la risposta, è mito moderno per eccellenza. Un mito che poco o nulla ha da spartire con il repertorio mitologico dell’antichità greca e latina. Al di fuori del sistema etico imposto dal cristianesimo, don Giovanni sarebbe inconcepibile. La dimensione mitica l’ha conquistata per la sua deliberata, ostentata trasgressione della morale cristiana. Lo dice già Sören Kierkegaard nel suo geniale saggio sul Don Giovanni di Mozart: «L’idea del Don Giovanni appartiene al cristianesimo» (p. 90). È un miscredente, un ateo convinto e praticante, «un uomo che sa vivere e morire senza Dio» (Tagliapietra, p. 202). E nato nel seicento e in Spagna, nel secolo in cui la chiesa ha cercato di imporre la linea etica elaborata a metà cinquecento dal concilio di Trento e nel paese dove maggiormente ha imperversato la repressione del tribunale della Santa Inquisizione.

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8 commenti:

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    Il seicento è il secolo del barocco e don Giovanni, figlio del suo secolo, è personaggio eccesivo, ridondante. Tipicamente barocco. Non solo ignora la legge divina, rifiuta anche l’ordine sociale. Non solo è ateo, è anche amorale e asociale. Si fa beffa dei sentimenti più onesti, dell’amore sopra tutto. È dotato di una virilità irrefrenabile e insaziabile. Una vera e propria bulimia del sesso. Instancabile seduttore seriale, conclusa una conquista va a caccia della successiva. Avanti un’altra è il suo programma di vita. Molti dettagli della sua vita erotica li conosciamo grazie al genio di Mozart. Il suo don Giovanni avverte l’avvicinarsi di una donna così come un animale sente l’avvicinarsi di una preda. Nel primo atto, quando sta per arrivare donn’Elvira, impone il silenzio al servo Leporello perché, gli dice: «Mi pare sentir odor di femmina». E Leporello commenta: «Cospetto! Che odorato perfetto!» (atto primo, scena quarta). Grazie al pettegolo servo veniamo a sapere che «sua passion dominante è la giovin principiante» ma, alla fine, «purché porti la gonnella, voi sapete quel che fa». Don Giovanni non cerca amore, non cerca bellezza. Non importa che la donna della sua conquista «sia giovane o vecchia, sia bella o brutta». Basta, a sentir Leporello, che porti la gonnella. Il piacere del libertino nasce dal «piacere di porle in lista». Il piacere di aggiungere una gonnella all’elenco delle gonnelle. Tutte queste notizie le fornisce la celeberrima aria del catalogo. Una lista delle conquiste del padrone sciorinata, fra il serio e il faceto, da Leporello a donn’Elvira sposa abbandonata dal fedifrago seduttore. Una lista che, è ovvio, non è definitiva, non è ancora chiusa e s’interrompe su un numero, «mille e tre», che lascia spazio ad altre conquiste, ad altre gonnelle. Ma ascoltiamo Leporello al quale presta la voce Sesto Bruscantini, in una versione del 1970, diretta da Giulini.

    Quando si affronta il tema dell’erotismo di don Giovanni, il confronto con altri personaggi letterari risulta impari. È invece il caso di metterlo a fronte di un personaggio storico, di proporre un faccia a faccia con Giacomo Casanova. A differenza di don Giovanni, Giacomo Casanova non è un ginnasta del sesso, è un edonista alla continua ricerca del piacere. La vita, per lui, è piacere. È un piacere mangiare, un piacere girare il mondo, un piacere giocare a carte, un piacere conversare, un piacere giacere con una donna. Figlio di due attori, si esibisce non a teatro ma sulla scena della vita. Il sesso è un’altra maniera per recitare, per mettersi in vista, per farsi conoscere, per farsi ammirare. Brillante conversatore, affabulatore nato, dotato di un fisico possente (è alto quasi due metri), dovunque passa fa strage di cuori femminili, nei salotti come nelle osterie, nei conventi come negli harem. A modo suo, è generoso. Dice che quando fa l’amore il suo piacere dipende per quattro quinti dal piacere donato all’amante. Non si innamora, ma cerca di trovare un buon marito alle giovani prede prive di mezzi di fortuna. È spregiudicato, ma non è un libertino crudele come don Giovanni che nel sesso non cerca il piacere, cerca l’affermazione della libertà di fare tutto, il male compreso. Don Giovanni disprezza le vittime della sua forza seduttrice, Casanova è capace di tenerezze e di abbandoni. Don Giovanni è sempre uno stupratore, anche quando la donna è consenziente, Casanova si lascia corteggiare e sedurre. La fine di don Giovanni è drammatica, quella di Casanova è malinconica, come la racconta Schnitzler in uno dei suoi capolavori, Il ritorno di Casanova (1915-1917).

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  2. Don Giovanni è nato nel seicento, è nato in Spagna, ed è nato in teatro perché per molto tempo ha vissuto soltanto sulle scene. È stato protagonista, mattatore, di drammi teatrali, di scenari dell’italiana commedia dell’arte, di opere in musica, del teatro delle marionette, di spettacoli fieristici. Tutto è cominciato con El burlador de Sevilla y convidado de pietra, dramma in tre atti di Tirso de Molina, pubblicato nel 1630. Tirso de Molina è il nom de plume del monaco madrileno Gabriel Téllez, prolifico autore teatrale, al quale si attribuiscono oltre quattrocento drammi. Il suo burlador non un è innocuo burlone. Come dice il servo Catalinón, progenitore di Leporello, è «l’ingannatore di Spagna» (atto secondo, p. 56). Un farabutto che seduce le vittime sotto mentite spoglie o con bugiarde profferte d’amore eterno. I don Giovanni che verranno dopo saranno dei miscredenti, degli ateisti. L’eroe di Tirso de Molina è un credente che, per soddisfare gli impulsi sessuali, infrange tutti i principi delle leggi civili e penali e della morale cristiana. È un trasgressore, un fuorilegge che sfrutta l’impunità di cui gode quale figlio di un grande di Spagna, amico del re. Nel testo di Tirso compaiono il commendatore di Calatrava, la figlia donn’Anna, il duca Ottavio. Personaggi che figureranno nelle successive rielaborazioni delle avventure di don Giovanni.

    Il Burlador di Tirso divenne presto un canovaccio della commedia dell’arte, portato in giro per l’Europa. Nel 1658 arrivò a Parigi, dove gli attori italiani avevano molto successo. I loro rozzi canovacci nel 1665 furono trasformati in un grande testo teatrale dal genio di Molière. Don Juan ou le festin de pierre andò in scena al Palais-Royal ed entusiasmò il pubblico parigino. Il dramma era ambientato nella Sicilia spagnola. Per inseguire sin lì una bellezza da sedurre, don Giovanni ha abbandonato in Spagna la moglie Elvira. È un bugiardo e un ipocrita. Confessa però una cosa che può servire al mito di don Giovanni e al dongiovannismo: «Tutto il piacere dell’amore sta nel cambiare». Il piacere è nella novità. La costanza non dà piacere, alimenta noia e disamore. Il servo Sganarello che ben lo conosce lo definisce «un eretico che non crede né al cielo, né ai santi, né al diavolo né a Dio». Al vecchio genitore don Giovanni assicura d’essersi pentito dei peccati e di essersi convertito alla fede. Ma a Sganarello servo e confidente rivela il suo vero pensiero: «Non sono affatto cambiato e i miei sentimenti son sempre gli stessi». Dopodiché si lancia in un elogio dell’ipocrisia, vizio che, a sentir lui, gode «d’una impunità sovrana». Continuerò a condurre la mia vita dissoluta, conclude, ma con discrezione, senza dare nell’occhio, in sordina. L’importante è evitare di farsi scoprire.

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  3. Il capolavoro di Molière molto contribuì alla fortuna del personaggio, alla diffusione del mito, alla proliferazione di variazioni sul tema. Nemmeno Carlo Goldoni seppe resistere al fascino di don Giovanni. In mezzo alle sue duecentododici commedie c’è spazio anche per un Giovanni Tenorio o sia il Dissoluto, del 1736. La motivazione non è molto nobile. Nei Mémoires stesi da vecchio, in francese, nel volontario esilio parigino, racconta di averlo fatto per vendicarsi delle infedeltà di un’attricetta, Elisabetta D’Afflisio Moreri detta la Passalacqua, che era la sua amante. A lei affidò il ruolo di una giovane ingenua pastorella sedotta tradita e abbandonata da un don Giovanni Tenorio che castigava la Passalacqua e vendicava l’amante scrittore. Nella prefazione alla commedia, Goldoni manifestava stupore per il successo e la popolarità di una storia che, secondo lui, era «piena zeppa di improprietà e inconvenienze». A modo suo cercò di rendere verosimile la trama e di smorzare gli eccessi dell’eroe. Compito impossibile, perché don Giovanni è eccessivo e inverosimile, oppure non è. È, per citare alcuni titoli, il libertino punito, l’ateo fulminato, oppure non è. Privo di «improprietà e inconvenienze», il testo di Goldoni era talmente insipido da provocare l’insuccesso del pubblico e l’immediata scomparsa dal repertorio.

    L’ottocento romantico non poteva sottrarsi al fascino morboso di don Giovanni, divenuto eroe romantico per eccellenza. Byron, Puškin, Dumas, Lenau, de Musset hanno cantato in versi o raccontato in prosa le sue imprese. Stendhal in un capitolo del suo trattato Dell’amore lo ha messo a confronto con un altro eroe romantico, il giovane Werther. Confronto a tutto vantaggio del personaggio di Goethe perché, argomenta Stendhal, don Giovanni «uccide l’amore» quando lo riduce «a un affare di ordinaria amministrazione», mentre invece l’«amore alla Werther produce insoliti piaceri». Parere che si può condividere, oppure no. Fate voi. Più sottile di Stendhal è Christian Grabbe, poeta e drammaturgo tedesco stroncato in giovane età da alcol e vita sregolata. Nel 1823, poco più che ventenne, scrisse un dramma in cui metteva in scena don Giovanni e Faust, altro personaggio di Goethe. L’accoppiata risultò diabolica. Uno, don Giovanni, quando parla di donne si vanta di non aver «mai sentito rimorsi se dal mio letto cadevano nella bara». Assatanato di possesso, Faust annuncia: «quel che desidero lo devo avere, oppure lo distruggo». E, coerente con il suo criminale intento, uccide donn’Anna con perversa noncuranza. Il testo di Grabbe, dicevo, è del 1823. Vent’anni dopo lo spagnolo José Zorrilla sembra voler raggiungere con il suo Don Giovanni Tenorio un insuperabile acme drammatico, ma alla fine assolve l’eroe. Dopo una vita ancora più dissoluta, più violenta, più criminale dei predecessori; dopo avere stuprato decine di donne e ucciso decine di uomini; dopo aver cercato di commettere il crimine più orrendo, la seduzione di una vergine monaca, il don Giovanni di Zorrilla troverà la salvezza nell’amore puro di un’innocente fanciulla, donna Inés. Sin lì s’era imbattuto «in donne di facili costumi e in audaci meretrici» (Ortega y Gasset, p. 51), sin lì aveva conosciuto e praticato un sesso frettoloso e fugace, un sesso di facile consumo. Sin lì si era comportato come un criminale e come un dissoluto avventuriero. Ma non era quella la sua autentica natura. Incontra donna Inés e, per la prima volta in vita sua, concepisce un tenero sentimento perché l’amore può sbocciare anche nel più arido dei terreni. Si pente dei suoi crimini e tanto vale a meritargli l’apoteosi finale del perdono divino. D’ora in poi don Giovanni smetterà d’essere un dongiovanni.

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  4. Nel 1669 Salvator Rosa, il pittore napoletano, in una lettera a un amico dà la notizia che a Roma, in occasione del carnevale, è andato in scena un Empio punito versione musicale del don Giovanni. Il libretto era di Pippo Acciajoli, la musica di Alessandro Melani. Molto presto, pochi decenni dopo l’esordio con Tirso de Molina, la storia del libertino punito cominciava a essere accompagnata dalla musica e dal canto. Diventava libretto d’opera, vaudeville, balletto. Nel 1692 Henry Purcell, il maggiore compositore inglese dell’età barocca, musicò un Libertine destroyed tratto da un dramma di Thomas Shadwell. Nel finale dell’opera il libertino paga i peccati e finisce all’inferno, dove lo attende un coro di diavoli. Come capiterà anche al don Giovanni di Mozart. Prima del capolavoro mozartiano, nel settecento, si contano numerose versioni operistiche di compositori italiani oggi dimenticati. Nel 1787, a Venezia esordì un Convitato di pietra musicato da Giovanni Gazzaniga su libretto di Giuseppe Bertati. L’opera piacque e fu ripresa in altre città. A Vienna ebbe modo di ascoltarla Lorenzo da Ponte che, l’anno precedente, nel 1786, aveva fornito a Mozart il libretto delle Nozze di Figaro. Da Ponte è stato maltratto dalla critica. Come letterato, s’è detto, era un poetastro, un abile versificatore e nulla di più. E, come uomo era un mediocre avventuriero, un Casanova di secondo piano, privo del fascino e dell’estro del modello. Ma i suoi libretti per Mozart, tre in totale, rimangono i migliori capitati tra le mani del giovane genio musicale.

    Affascinato dal soggetto dell’opera di Gazzaniza, Da Ponte propose a Mozart di prepararne un’altra versione. Affare fatto. Veloce era il librettista, velocissimo il musicista. Il 29 ottobre del 1787 nel Nationaltheater di Praga debutta il Don Giovanni ossia il dissoluto punito, libretto di Lorenzo Da ponte, musica di Wolfgang Amadeus Mozart. Composta la notte precedente la prima recita, l’ouverture è una sublime pagina musicale «in due movimenti, un Andante e un Molto allegro, in re minore il primo, in re maggiore il secondo» (M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, pp. 45-46). Il primo movimento è dedicato al Commendatore e al suo dramma, il secondo è un ritratto musicale di don Giovanni e della sua prorompente vitalità. Il re minore, tonalità tragica prediletta da Mozart, è in grado di anticipare il cupo spettacolare finale dell’opera. Il re maggiore ben si presta a rendere la «sensualità demoniaca» del seduttore (Hermann Abert). (Secondo ascolto: ouverture). Sin dal titolo, Da Ponte precisa che il loro Don Giovanni, suo e di Mozart, è un «dramma giocoso», ossimoro che rende bene il carattere dell’opera. Lui, Da Ponte, ha concentrato l’azione drammaturgica sul protagonista assoluto, su don Giovanni che non smarrisce la centralità del ruolo nemmeno nelle digressioni da opera buffa con cui Mozart alleggerisce lo spartito. L’autore del libretto ha senza dubbio sfruttato i precedenti testi, ma ha saputo sfrondarli delle scene e dei personaggi più convenzionali. Serrata e avvincente è la trama, verosimili sono i caratteri. Il libretto è congegnato con uno schema molto efficace. Esordisce con una tragedia (l’uccisione del Commendatore per mano di don Giovanni), si conclude con un’altra tragedia (la morte di don Giovanni inghiottito dalle fiamme dell’inferno). Fra questi due estremi tragici, tutto il resto è commedia, farsa, opera buffa.

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  5. Con la sua musica Mozart è riuscito a rendere meno evidente, meno incongruo, lo scarto fra i due livelli drammaturgici. Sul rapporto che si stringe fra libretto e musica, aveva idee molto chiare. In una lettera al padre aveva scritto: «In un’opera la poesia dev’essere la figlia obbediente della musica». Ricevuto il testo di Da Ponte, lo aveva sottomesso a questo principio. Tutte le volte che lo aveva ritenuto opportuno, lo aveva manipolato per renderlo più conforme alle idee musicali. E così, a parte qualche intermezzo leggero e la forte connotazione comica di Leporello, complice suo malgrado delle malefatte e delle dissolutezze del padrone, il Don Giovanni di Mozart è innanzi tutto un dramma in musica, uno dei più potenti, dei più impressionanti. Come anticipa il titolo di Da Ponte, don Giovanni dissoluto impenitente è condannato al castigo finale. La sua atroce morte tra le fiamme degli inferi è accompagnata da inquietanti, minacciosi accordi in tonalità minore. Nella musica che accompagna il rifiuto del Commendatore di accettare la cena allestita per lui da don Giovanni, si ascoltano, addirittura, «alcune serie dodecafoniche e l’anticipazione della scrittura [musicale] espressionista» (Macchia, pp. 110-111). Per primo lo ha rilevato, nel 1950, Darius Milhaud in una lettera a Luigi Dallapiccola.

    Secondo Hoffmann, scrittore romantico tedesco autore di un bel racconto su una recita del Don Giovanni mozartiano, «è difficile capire come Mozart abbia potuto immaginare e comporre una musica tanto eccelsa partendo da quel tema». La spiegazione più acuta di quel mistero non l’ha fornita la critica musicale ma un filosofo, Sören Kierkegaard, che si proclamava «innamorato di Mozart come una giovinetta». Nel 1845 aveva pubblicato un saggio dedicato al suo grande amore, intitolato: Don Giovanni. La musica di Mozart e l’eros. Sua tesi è che quell’opera è il frutto eccezionale dell’incontro fra il massimo genio musicale d’ogni tempo e il soggetto più musicale mai concepito. Una sintesi mirabile e irripetibile. Kierkegaard dice testualmente «soggetto» ma intende il protagonista del soggetto, don Giovanni uomo estetico per eccellenza. Due anni prima, nel 1843, aveva pubblicato Aut-Aut doveva poneva una fondamentale distinzione fra uomo etico e uomo estetico. Uno guidato dal principio del dovere, l’altro sempre a caccia del piacere. Don Giovanni è uomo estetico poiché pratica l’edonismo del carpe diem, anzi del carpe horam. Il piacere fuggente dell’attimo fuggente. Autentico seduttore, dice Kierkegaard in un altro saggio del 1845, In vino veritas, è l’uomo che mangia l’esca senza mai abboccare all’amo. Che prende senza farsi prendere. Che seduce e possiede la donna ma non si innamora mai. Come fa il don Giovanni di Mozart.

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  6. La grandezza assoluta, incomparabile, irraggiungibile dell’opera di Mozart ha in pratica bloccato ulteriori tentativi di mettere in musica il mito del grande libertino. Aveva provato a farlo, temerario, il russo Aleksander Dargomyškij, allievo di Glinka, ma non è mai riuscito a completare un’opera ispirata dal Convitato di pietra di Puškin. Kierkegaard lo aveva anticipato: «La fortuna di Mozart è stato di trovare un soggetto assolutamente musicale, e se qualche altro musicista volesse gareggiare con Mozart, non gli rimarrebbe altra possibilità che comporre di nuovo il suo Don Giovanni» (p. 57). Con molta intelligenza il giovane Richard Strauss ha imboccato una strada diversa, la strada del poema sinfonico che lui preferiva chiamare poema sonoro. Il suo Don Giovanni è del 1888. Strauss ha ventiquattro anni ed è, in pratica, all’esordio. Si è già reso conto che la sua ispirazione si esalta nella trasposizione musicale, orchestrale, di testi letterari. Qualcuno gli ha rimproverato di avere scelto, con astuzia, quella strada perché incapace di affrontare la musica «nella sua autonomia puramente sonora» (Massimo Mila). Dopo il successo del primo poema sinfonico, nel giro di pochi anni metterà in musica Macbeth, don Chisciotte, Till Eulenspiegel e, persino, un Così parlò Zaratustra ispirato dal testo filosofico di Nietzsche che contiene la teoria del superomismo. Poema sinfonico, questo, che Stanley Kubrik ha inserito nella colonna sonora di 2001: odissea nello spazio. (Quarto ascolto).

    Per il Don Giovanni Strauss aveva usato come fonte il romanticissimo poema Don Juan di Nikolaus Lenau, pubblicato incompiuto nel 1844. E il giovane quasi esordiente musicista aveva dimostrato la capacità di trarre stimolo da testi letterari trasposti nel linguaggio di un estremo romanticismo musicale, debitore delle armonie postwagneriane. Modello dei suoi poemi sinfonici è la «musica a programma» inaugurata da Hector Berlioz con la Sinfonia fantastica (1830). Nel Don Giovanni di Strauss si succedono due temi. Quello iniziale caratterizza l’eroe «teso solo a soddisfare il suo instancabile desiderio» (Manzoni, 430) di conquiste femminili. L’esuberanza del personaggio è resa con l’esuberanza delle frasi musicali «ricche di dissonanze e accordi perfetti» (Macchia, p. 57). Magistrale è l’uso dell’orchestra che Richard Strauss padroneggia con «infallibile facilità» (Mila, p. 327). In un secondo tempo, «solo dopo la metà della partitura», affiora un «carattere più solenne ed eroico» che prelude al finale come sempre drammatico, perché è l’ora del castigo e della morte di don Giovanni. I due temi principali sono abilmente intrecciati con quelli «che caratterizzano l’elemento femminile» (Manzoni, pp. 430-431), oggetto dell’insaziabile desiderio del protagonista. (Quinto ascolto).

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  7. Il romanticismo sembra aver esaurito l’esplorazione del mito di don Giovanni. Il poema sinfonico di Richard Strauss è un exploit tardo romantico che conclude la lunga stagione dei don Giovanni in musica. Anche in letteratura si chiude un ciclo creativo protrattosi per tre secoli. Il mito prova a rinascere a Catania, ma il don Giovanni di Vitaliano Brancati non è un seduttore libertino e incostante. È un mediocre uomo del sud il cui erotismo da casa di piacere rischia di essere compromesso quando si trasferisce al nord, a Milano. Nella versione cinematografica di Alberto Lattuada, il don Giovanni catanese abbandona Milano e il frenetico mondo degli affari e ritorna nell’accidiosa Catania. Sin dalla nascita il cinema, forma artistica figlia del novecento, aveva provato a rispolverare il mito di don Giovanni, a farlo rivivere. Nell’edizione 2011 del “Cinema ritrovato”, benemerita rassegna annuale della Cineteca bolognese, è stato presentato un lungo frammento della prima versione cinematografica del don Giovanni. Era il Don Juan girato nel 1908 dal prolifico regista francese Albert Capellani che, com’era da attendersi, aveva trasferito nel nuovo mezzo espressivo, in pellicola, il capolavoro di Molière. Un precoce esempio di teatro filmato. Nel 1926 don Giovanni approda a Hollywood che, com’è suo costume, non bada a spese. Il ruolo del protagonista viene assegnato a John Barrymore, il divo più costoso e popolare del momento. La casa produttrice, la Warner Bros, aveva approfittato dell’occasione per tentare il primo esperimento di cinema sonoro. Si legge sempre che il sonoro ha esordito con Il cantante pazzo diretto da Alan Crosland e interpretato da Al Jolson con la faccia impiastricciata di nerofumo. Non è così. I fratelli Warner il primo esperimento lo avevano fatto con il Don Juan realizzato, l’anno precedente, dal medesimo regista. Nonostante la novità del film con attori parlanti, il Don Juan fallì al botteghino. Fallì perché era un indigesto polpettone pseudostorico in cui don Giovanni seduceva, fra le altre, persino Lucrezia Borgia.

    Dopo queste prime prove poco esaltanti, l’industria cinematografica ha messo in disparte don Giovanni. Lo ha riproposto Carmelo Bene, mezzo secolo dopo e a modo suo. Con l’enfasi parodistica e barocca che lo distingueva, nel 1970 tradusse in film un suo spettacolo tratto da un racconto che aveva un secolo di vita, Il più bell’amore di don Giovanni, decadente e tardoromantico omaggio di Barbey d’Aurevilly al mito del grande seduttore. Una decina di anni dopo, Joseph Losey allestì una sontuosa versione cinematografica dell’opera di Mozart, con Ruggero Raimondi nei panni di don Giovanni. Son passati più di trent’anni, è finito un secolo e ne è cominciato un altro. Don Giovanni sembra ormai dimenticato e il suo mito morto e sepolto insieme al dongiovannismo sostituito, ahinoi!, dal bungabunghismo berlusconiano.

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  8. Bibliografia.

    1. Giovanni Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Laterza, Bari 1966
    2. Sören Kierkegaard, Don Giovanni. La musica di Mozart e l’eros, Mondadori, Milano 1976
    3. S. Kierkegaard, Aut-Aut. Estetica ed etica nella personalità, Mondadori, Milano 1956
    4. Lorenzo Da Ponte, Tre libretti per Mozart, Rizzoli, Milano 1956
    5. Pierre-Jean Jouve, Il Don Giovanni di Mozart, Adelphi, Milano 2007
    6. Massimo Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Einaudi, Torino 2000

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