13 – 14 APRILE 2013 -
VICENZA E IL PALLADIO (di Cochi
Nicosia)
Il teatro Olimpico di Vicenza è
l’ultimo progetto di Palladio morto nell’agosto del 1580, poco dopo l’inizio
dei lavori. La commissione gli era stata assegnata dall’Accademia Olimpica,
nata nel 1555. Molte di queste istituzioni sviluppatesi in quel secolo erano
circoli esclusivi di nobili, ma l’accademia vicentina era stata creata dai
ventuno soci fondatori con intenti culturali d’ampio raggio, aperta anche agli
artisti più rappresentativi della città, tra cui appunto Palladio. Cinque o sei
anni dopo la fondazione, al socio Palladio fu chiesto di progettare un «teatro
di legname simile a quello degli antichi romani» da sistemare nel grande salone
quattrocentesco della vecchia basilica tardogotica che, in quegli anni, lo
stesso Palladio stava rivestendo con uno splendido involucro classico.
Completato nel 1561, il teatro presentò nei giorni di carnevale una commedia di
un autore contemporaneo, l’Amor costante di Alessandro Piccolomini, e
l’anno dopo, sempre durante le festività carnascialesche, la tragedia Sofonisba
di Trissino. Nella preparazione del progetto, Palladio si era documentato con
la lettura del testo di Vitruvio e con lo studio dei resti di teatri antichi a
Roma, a Verona e anche a Vicenza dove, a poche centinaia di metri della
basilica, al di là del fiume Retrone, ancora si potevano vedere i ruderi del
teatro di Berga. Testimonianza delle radici romane di Vicenza che era
attraversata dalla via consolare Postumia che, da Genova portava a Vienna. E
l’attuale corso Palladio è un segmento dell’antica via romana.
Dopo quelle due esecuzioni, per una ventina d’anni il teatro
della basilica rimase inattivo, non si organizzarono altri spettacoli. Nel 1579
gli accademici Olimpici progettarono di ridare vita all’attività teatrale. La
vecchia sala della Basilica era risultata inadeguata all’afflusso degli
spettatori All’inizio del 1580, si chiese al maggior consiglio cittadino la
concessione di un’area edificabile nel cosiddetto Territorio, una zona un tempo
occupata dal castello dei Carraresi, signori di Vicenza per quasi un secolo.
Nel terreno prescelto sorgevano le prigioni vecchie dei Carraresi. Nella
richiesta si precisava che in quel luogo «ha da essere l’habitatione dell’Accademia
et insieme teatro e scena per pubblici spettacoli». Una sede per l’istituzione,
quindi, con annessa sala per spettacoli. A richiesta, in quattro e quattr’otto
Palladio presentò un progetto per il teatro. Non fece molta fatica poiché da
lungo tempo lavorava sul tema di uno spazio adibito a pubblici spettacoli, sul
modello degli antichi teatri romani. Gli accademici non furono da meno, misero
subito in cantiere la rappresentazione di una favola pastorale e cominciarono
ad assoldare gli attori. Entusiasti della proposta di Palladio di adornare
l’interno della sala con i loro ritratti, gli accademici si preoccuparono di
trovare gli scultori e di pagarli. Ma, a lavori appena iniziati, il 19 agosto
Palladio morì.
A
questo punto entra in scena, è il caso di dire, Vincenzo Scamozzi. Ventottenne
ambizioso, allievo del padre ebanista che si dilettava di architettura,
Scamozzi aveva già dato prova del suo ingegno con la realizzazione a Lonigo
della Rocca dei Pisani, una villa modellata sulla Rotonda di Palladio. Aveva
poi intrapreso un lungo viaggio di studio a Roma e a Napoli. Rientrato a
Vicenza, aveva raccolto l’eredità di Palladio di cui aveva portato a termine le
tante opere incompiute. L’esperienza del teatro Olimpico gli permise di realizzare,
una decina di anni dopo dietro incarico di Vespasiano Gonzaga, il teatro di
Sabbioneta. Era stato chiamato a Palmanova per progettare alcuni monumenti
della città ideale eretta a partire dal 1593 su progetto di Giulio Savorgnan. A
Venezia aveva costruito le procuratie nuove, a completamento della piazza San
Marco. Nel 1615, un anno prima di morire, aveva pubblicato un testo a cui
lavorava da più di vent’anni, L’idea dell’architettura universale,
considerato l’ultimo trattato teorico di architettura del rinascimento, quando
ormai le idee e il gusto del tempo volgevano verso il barocco. Palladio aveva
lasciato un modellino del teatro così come lo voleva, e molti disegni.
Servirono a Scamozzi per portare a termine i lavori. Mancava qualche dettaglio
e il seguace di Palladio fu costretto a improvvisare, a inventare. Sua è la
soluzione prospettica delle strade che si aprono al di là della scena fissa, la
frons scenae del teatro romano. Il teatro fu inaugurato il 3 marzo del
1585, sempre in occasione del carnevale. Per l’occasione si mise in scena un
testo di Sofocle, l’Edipo re, considerato la massima espressione della
tragedia classica. A Scamozzi si chiese di disegnare le scene che dovevano
rappresentare «Tebe, città di Beotia e sede d’Impero», scene che ancor oggi si
possono ammirare. La via regia è lunga dodici metri, ma il gioco prospettico
predisposto da Scamozzi la fa sembra molto più lunga. Le scene prospettiche
sono state realizzate in legno dipinto, le statue che adornano i palazzi tebani
sono di stucco.
La sala del teatro è preceduta dall’Odèo Olimpico, progettato da
Scamozzi, e destinato, come nella Grecia antica, ai concerti musicali. Oggi è
sede di riunioni e convegni. Sulle pareti finte nicchie dipinte da Francesco
Maffei accolgono divinità olimpiche. In un angolo, un torso mutilo di Ercole,
protettore dell’accademia, è retto da un piedistallo su cui si legge il motto
dell’accademia: «hoc opus, hic labor est», tratto dall’Eneide e che si può liberamente tradurre «ogni opera richiede
fatica».
Oggi si accede alla sala del teatro attraverso le porte in
basso, all’origine l’ingresso era collocato in alto, nelle logge che chiudono
l’esedra e che sono collegate con i gradoni della cavea semicircolare.. Il
soffitto della acvea, danneggiato da infiltrazioni d’acqua, fu demolito nel
1734 e sostituito con una copertura in tela che non poteva reggere a lungo. Dopo
vent’anni si rece necessario un altro intervento, si dipinse ad affresco un
finto cielo, rifatto nel 1914. Soluzione discutibile che vorrebbe offrire agli
spettatori l’illusione di trovarsi in uno spazio all’aperto, come in un teatro
antico. Il tetto del proscenio è a cassettoni, come l’aveva progettato Palladio
La decorazione del teatro è affidata soprattutto a una serie di statue,
distribuite tra l’esedra e la scena fissa, collocate all’interno di nicchie o
sostenute da piedistalli. Quelle sul coronamento dell’esedra risalgono alla
metà del settecento e sono state tutte modellate da Giacomo Cassette come
postumo omaggio ai fondatori dell’istituto, con la posizione centrale
accordata, com’era doveroso, a Palladio. Dell’epoca della costruzione del
teatro, alla fine del cinquecento, sono le altre statue, quarantadue in totale,
comprese quelle delle nicchie sul fondo dell’esedra. Quattordici conservano
nome e cognome del socio accademico effigiato. Si avanzano molte ipotesi sui
nomi degli scultori impegnati in questi ritratti, ma l’unico sicuro è Ruggero
Bascapé che ha lasciato la firma in un riquadro.
Pietra,
legno, stucco sono i materiali di costruzione della fronte di scena fissa che,
ispirata con i suoi tre varchi agli archi trionfali romani, fa parte
dell’originario progetto di Palladio. Il passaggio centrale corrisponde alla
porta regia dell’arco romano, i due laterali sono gli hospitalia, varchi
destinati agli ospiti. La via regia
lunga dodici metri, ma il gioco prospettico predisposto da Scamozzi, la fa sembrare
più lunga. Le scene prospettiche sono state realizzate in legno dipinto, le
statue che adornano i palazzi tebani zono in stucco. La rigorosa sovrapposizione
di due ordini corinzi s’interrompe nelle più semplici versure ad angolo retto
che saldano la frons scenae alle pareti divisorie tra proscenio e cavea.
Il proscenio è un’area rettangolare lunga e stretta. Sull’arco centrale
campeggiano due Vittorie e un
riquadro scolpito con un ippodromo, affiancato da due stature della Fama, munite di tromba. Il finto attico
superiore è diviso in riquadri con altorilievi che celebrano le imprese di
Ercole, divinità protettrice dell’accademia vicentina. Le statue delle nicchie
e quelle degli ordini superiori sono ritratti idealizzati dei soci
dell’accademia. Gli anziani indossano la veste curiale, i più giovani sono
abbigliati e armati da guerrieri. Di Scamozzi, abbiamo detto, sono le strade
che si allontanano oltre il proscenio in vertiginosa prospettiva. Cinque strade
pavimentate in legno (una in salita dall’arco centrale, due dai varchi degli hospitalia,
due dalle versure) che l’illusionismo prospettico fa apparire molto più lunghe
di quanto in realtà non siano. Le affiancano palazzi, templi, case di una città
radiale che sembra configurare, in anticipo di qualche anno, l’utopia di
Palmanova.